La malattia resta un nemico difficile
Fino ad ora l’ipertensione arteriosa polmonare (è la forma di ipertensione polmonare per la quale ci sono terapie farmacologiche e non chirurgiche) veniva affrontata con gradualità: si cercava di adattare la terapia al paziente via via che i sintomi si aggravavano cercando di ‘aggiustare il tiro’ secondo un percorso sempre più aggressivo. Oggi l’approccio è drasticamente cambiato, scegliendo una via più frontale che consente anche una maggiore ‘personalizzazione’ dell’intervento.
«Abbiamo imparato la lezione dall’oncologia e dallo scompenso cardiaco – spiega Michele D’Alto, uno dei massimi esperti internazionali della malattia, fondatore e responsabile del Centro per la diagnosi e la cura dell’ipertensione polmonare all’Ospedale Monaldi di Napoli – e quindi anche noi iniziamo subito con un approccio che si avvale di più farmaci sin dall’inizio in modo da essere aggressivi e mettere alle corde la malattia. I risultati sono sicuramente migliori. Ma non solo, adesso facciamo particolare attenzione anche alla stratificazione del rischio e cioè a quella valutazione multiparametrica (mettiamo insieme l’osservazione clinica, con i biomarkers, i dati ecocardiografici e quelli emodinamici) che ci permette di stabilire il grado di avanzamento della malattia e, di conseguenza, di adottare la strategia terapeutica migliore. É una valutazione che richiede molta esperienza e che va ripetuta periodicamente perché è un indice dinamico. Aspetto questo molto importante. Nei pazienti più giovani e privi di altre patologie, una terapia aggressiva e precoce consente a volte di ottenere un miglioramento eclatante, con una ripresa quasi completa delle attività quotidiane ed una buona qualità della vita. Ecco perché bisogna fare presto, non si deve perdere tempo e i pazienti devono essere indirizzati subito verso Centri di riferimento che possano trattarli con le terapie più avanzate. Tutto questo fa capire quanto sia importante il modello della rete sul Territorio, del network».